Alle radici del nostro essere europei

Apr 26, 2019 | 0 commenti

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Da Patmos a Salamanca, da Praga a Parigi, Lisbona, Berlino, Londra, Copenhagen e lungo il Cammino di Santiago scorrono le istantanee di eventi lontani e di drammi recenti. E si profila il volto dei testimoni che hanno segnato il secolo scorso: Miguel de Unamuno, Etty Hillesum, Dietrich Bonhoeffer… Europa una mappa interiore (Ave, Roma 2019) di Pietro Pisarra – giornalista e sociologo, vive a Parigi – è un originale viaggio tra storia, letteratura e spiritualità nei luoghi in cui è stata forgiata la nostra memoria collettiva, una mappa interiore alla ricerca di ciò che sta cambiando nel nostro continente e mette in crisi la stessa idea di Europa.

Qui vi proponiamo l’Introduzione.
«Non si viaggia per piacere. Siamo scemi, ma non fino a questo punto», dice un personaggio di Samuel Beckett nel romanzo Mercier e Camier (1970).
Ma allora perché si viaggia? Ognuno di noi potrebbe elencare le proprie ragioni. Tutte più o meno giuste, più o meno nobili. C’è chi viaggia per necessità, per fuggire la guerra o la fame, chi per lavoro, per curiosità o per noia. Perché, prima di essere sapiens, l’uomo è viator, in cammino, sulla strada.
Nella preistoria del mito c’è un viaggio. Un viaggio cosmico. Quello di Gilgameš, di cui si trovano gli echi anche nella Bibbia.
Disperato per la morte dell’amico Enkidu, Gilgameš vaga per la steppa, scala montagne, uccide orsi, iene, leoni, naviga per tutti i mari, attraversa paesi pieni di insidie e, da precursore di Orfeo, si inoltra nel regno dei morti alla ricerca dell’amico «diventato argilla». A che pro? Tremila anni prima della nostra èra, la saga dell’eroe mesopotamico lascia trasparire l’inquietudine esistenziale legata all’avventura del viaggio: «Perché ti sei agitato tanto? Che cosa hai ottenuto? Ti sei indebolito con tutti i tuoi affanni; hai riempito il tuo cuore soltanto di angoscia».
Si agita tanto anche Odisseo, ma lui, l’eroe moderno per eccellenza, una ragione ce l’ha. Il suo viaggio è un ritorno. Costellato di ostacoli, di incantesimi, di trappole. Nel doppio tentativo di tornare nel luogo delle origini e di ritrovare ciò che si è stati. Perché, se è vero quanto afferma il poeta latino Orazio («Caelum, non animum mutant, qui trans mare currunt»), è anche vero che il viaggio non lascia indenni. Se la natura umana non cambia, cambia, eccome, da un cielo all’altro, l’animo dei naviganti.
Dopo vent’anni di peregrinazioni, Odisseo è mutato nell’aspetto, se a riconoscerlo sono soltanto il cane fidato e una vecchia ancella. Ma più numerose dei segni esteriori sono le cicatrici invisibili, il veleno dolce amaro instillato giorno per giorno dalla nostalgia, il dolore del nostos, il ritorno.
Non c’è, però, un solo Odisseo. Nel nostro immaginario ce ne sono almeno due. «C’è un Ulisse centripeto», ricordava Beniamino Placido in un vecchio articolo («La Repubblica», 2 luglio 1992). «Il suo percorso è sì avventuroso, ma non rettilineo, bensì circolare. Non è uno spericolato viaggio verso l’ignoto; è un ritorno». Un nostos, appunto: da Itaca va a Troia, poi, tra mille deviazioni, di nuovo a Itaca. È il primo Ulisse, l’Ulisse di Omero.
Ma c’è anche l’altro, l’Ulisse centrifugo del ventiseiesimo canto dell’Inferno dantesco, l’esploratore insaziabile e irrequieto che si spinge oltre le colonne d’Ercole della conoscenza, sempre alla ricerca del nuovo. È l’Ulisse che incarna lo spirito della modernità occidentale, la razionalità tecnica, l’homo faber che rischia di trasformarsi in apprendista stregone o in dottor Stranamore quando si lascia dominare dalle sue stesse scoperte.
Centripeto o centrifugo, il viaggio implica sempre una trasformazione. E forse anche per questo esso è la prima metafora della vita. Cos’è la nostra esistenza, se non un viaggio, dalla nascita alla morte? Un pellegrinaggio segnato da incidenti, contrattempi, cambi di percorso, ma dall’esito prevedibile. E ineluttabile, come la morte del racconto orientale che aspetta il viaggiatore a Baghdad o a Samarra e a cui ci si illude di sfuggire cambiando direzione.
Anche nella Bibbia è un via vai continuo. Viaggiano i patriarchi d’Israele, viaggiano Giuseppe e i suoi fratelli, viaggia Rut la moabita, viaggia, anzi fugge il profeta Giona, viaggia Tobia, accompagnato dall’arcangelo Raffaele. E quando si tratta di definire la Legge, ecco le immagini della via o della strada. Se Gesù è un rabbi itinerante che di sé stesso dice: «Io sono la Via» (Gv 14,6), «quelli della Via» sarà il primo nome, il più antico, del cristianesimo nascente (At 9,2).
Nella storia della cultura si afferma col tempo anche l’idea del viaggio interiore, alle profondità del cuore e della mente. Viaggio non di rado tortuoso, alle prese con nemici invisibili e con il primo giudice delle nostre azioni, la coscienza.
Con l’avvento della civiltà di massa, da esplorazione, scoperta o esilio il viaggio diventa turismo, svago obbligato. Che sarà troppo facile criticare per la sua superficialità o futilità. «Vale la pena fare il giro del mondo per contare i gatti di Zanzibar?», scrive a metà dell’Ottocento il naturalista americano Charles Pickering.
Si potrebbe obiettare che i gatti di Zanzibar sono un argomento affascinante quanto i cani di Londra e quelli della Pennsylvania: basta saperli guardare. Ma gli strali contro i poveri turisti diventano un genere letterario autonomo, riempiono le gazzette. Uno sport senza conseguenze, a giudicare dal numero dei viaggiatori ai nostri giorni.
«Bisogna partire? Restare?», chiedeva Baudelaire. «Se puoi restare, resta», è l’amara risposta. Perché ovunque si vada è impossibile sfuggire alla nostra immagine: «un’oasi di orrore in un deserto di noia». Eppure lo spleen esistenziale si vince anche così: muovendosi, viaggiando, dialogando con chi coltiva abitudini, tradizioni, aspirazioni diverse dalle nostre. E poi – scrive il poeta turco Nazim Hikmet – c’è sempre un viaggio da fare, il più bello:
Il più bello dei mari
è quello che non navigammo.
Il più bello dei nostri figli
non è ancora cresciuto.
I più belli dei nostri giorni
non li abbiamo ancora vissuti.

***
Il nostro è un viaggio tra storia, letteratura e spiritualità nei luoghi in cui si è forgiata la memoria collettiva, una mappa interiore alla ricerca di ciò che sta cambiando nel vecchio continente e mette in crisi la stessa idea di Europa.
Da Patmos a Salamanca, da Praga a Parigi, Lisbona, Berlino, Londra, Copenhagen lungo il Cammino di Santiago e in altre tappe, scorrono così le istantanee di eventi lontani e di drammi recenti. E si profila il volto dei testimoni che hanno segnato il Novecento, Miguel de Unamuno, Etty Hillesum, Dietrich Bonhoeffer…
È un viaggio tra capitali e luoghi periferici, là dove, come scrive Iosif Brodskij a proposito di Istanbul, la geografia provoca la storia. Dove sono ancora visibili le cicatrici delle tragedie di ieri. E dove, per contrasto e tra mille difficoltà, si concretizza la realistica utopia di un’Europa unita, pacifica, senza le guerre che ne hanno funestato la storia. Non c’è Sarajevo, non c’è Auschwitz, dove l’Europa è sprofondata nella notte più cupa. Ma in filigrana il ricordo di quei drammi percorre tutto il racconto.
Oggi è fin troppo facile attaccare l’Europa. L’Europa dei mille regolamenti, dei burocrati e dei tecnocrati. Dimenticando le opportunità, i progressi, i vantaggi derivati dalla caduta dei muri e delle frontiere. Ne sa qualcosa la generazione Erasmus che dell’Europa ha fatto esperienza concreta. Ne sanno qualcosa quanti viaggiano per lavoro o per svago. E che contribuiscono a disegnare il volto di un’Europa accogliente, ospitale, al di là degli slogan di miopi politicanti, di apprendisti stregoni che agitano, con foga tribunizia, gli spettri del passato, riaccendono il fuoco di un nazionalismo portatore di sciagure e rianimano, con mille artifici retorici, una mitologia di paccottiglia.
Se l’Europa – come mi disse in un’intervista di alcuni anni fa Jean Delumeau – è il cristianesimo più l’illuminismo, l’universalismo cristiano e un’idea di tolleranza, i diritti umani e la razionalità scientifica, Erasmo e Galileo, Bruegel e Leonardo, allora quanti brandiscono il Vangelo e il rosario come armi, quanti invocano a parole le radici cristiane per poi tradirle nei fatti, sono soltanto mediocri propagandisti che si scagliano contro un’immagine caricaturale dell’Europa.
A quella definizione del grande storico francese si può aggiungere che l’Europa è anche l’epica e il mito dei greci, le luci di al-Andalus e dei filosofi arabi, è l’eredità di Gerusalemme, dei suoi profeti e dei suoi sapienti. È il disincanto di Montaigne e il riso di Rabelais, la honra, l’onore per cui combatte don Chisciotte, sia pure contro i mulini a vento, l’utopia di Thomas More, più che mai attuale, al tempo della Brexit. È la pietas di Enea che porta sulle spalle il padre Anchise. Perché l’Europa, terra di migranti, è meticcia e accogliente per definizione.
Questi reportage sono nati da un’idea di Giovanni Ferrò, caporedattore di «Jesus», che li ha ospitati sul suo giornale e che vorrei ringraziare, come ringrazio il direttore Antonio Rizzolo e il condirettore Vincenzo Vitale per averne permesso la nuova pubblicazione.
Qui li ripropongo in una versione rivista e ampliata, come contributo al dibattito che agita la classe politica e che spesso è falsato da fake news e retorica nazionalista.
È una piccola avventura, che comincia da Patmos, l’isola dell’Apocalisse, e si conclude a Gerusalemme, Europa fuori dall’Europa.

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