Hic Rhodus, hic salta

Nov 29, 2016 | 0 commenti

Il futuro dell’Europa dinanzi a Trump, Putin e Erdogan

di Luigi Alici* – In una delle sue opere più conosciute, Rivoluzione personalista e comunitaria (1935), Emmanuel Mounier individua cinque diversi modelli di società: tre di questi, in particolare, possono aiutarci a comprendere alcuni sommovimenti profondi nel sottosuolo della storia, non solo americana, dopo l’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti. Il primo modello è quello della “società di massa”: un insieme di individui senza vocazione, privi di identità, schiavi del conformismo e della “tirannia dell’anonimo”. Un secondo modello è chiamato da Mounier “società in noialtri” e indica quella forma di associazione che, reagendo a una massa anonima e impersonale, cerca di riscattarsi attraverso una investitura autoritaria, che si realizza attraverso una “mistica del capo”: la febbre dell’uomo carismatico, che dà voce a una maggioranza silenziosa, snobbata dagli apparati, diventa in alcuni momenti una sorta di riscatto dalla disgregazione e dalla umiliazione, incarnandosi in una coscienza collettiva personificata, che rappresenta ed esprime “noialtri”. Mounier pensava soprattutto ai fascismi come tipiche manifestazioni di questo modello, accanto al quale egli ne disegna un terzo, internamente più vivo del precedente ma politicamente meno connotato: è la  “società vitale”, costituita da un legame diretto, immediato, quasi viscerale, tra compagni di avventura, che si sentono vivi solo perché cementati da pezzi di esperienza, da comuni abitudini e comuni interessi. Oggi potremmo dire: è una società vitale non solo ogni piccola comunità che si aggrappa alle proprie consuetudini e tradizioni, escludendo il diverso, ma anche ogni aggregazione estemporanea, tenuta insieme dal tifo per una squadra di calcio o una rockstar, o da uno dei tanti social network, che tengono a battesimo comunità effimere e superficiali.

Rimescolando lo schema di Mounier ma restando fedele alla sua intuizione, si potrebbe dire che Trump è il frutto di una “società vitale”, che non accetta di lasciarsi disgregare dalla globalizzazione, che rifiuta il riemergere di nuove dinastie (i Kennedy, i Bush, i Clinton…) dentro una democrazia formale e inaridita; può farlo solo affidandosi a un leader diverso, illudendosi che possa essere un outsider solo perché parla il linguaggio di “noialtri”: ruvido, sfrontanto, addirittura volgare. Insomma, massimamente politically incorrect.

Nessuno di noi, arrivando con una patologia acuta in un Pronto soccorso, chiederebbe di farsi curare da qualcuno che non sia medico, perché l’ospedale non funziona. Eppure nella vita democratica – che oggi non funziona, questo è certo – non essere un politico e nemmeno un sincero democratico sta diventando paradossalmente un requisito vincente.

Aristotele ci ha insegnato che solo la politica – correttamente intesa – è capace di quello sguardo universalesull’intero da cui dipende l’edificazione del bene comune. Le società vitali sono invece selettive: i poveri  ammirano il miliardario di successo, i patiti della rete il superesperto di tecnologie digitali, gli intransigenti la persona onesta, i localisti arrabbiati chi non guarda troppo lontano, la gente stufa dell’includenza vorrebbe un decisionista… Il problema è che il riccone potrebbe non accorgersi degli altri, l’onesto potrebbe essere un incompetente assoluto, il decisionista un dittatore in erba, il simpatico insolente un pericoloso pasticcione. In un’epoca in cui la politica conta sempre di meno, chi si vanta di non far parte dell’establishment, potrebbe però essere organico a un diverso sistema di potere, che forse pesa di più di quello politico: ad esempio, il potere finanziario o quello mediatico.

Si può avere un successo elettorale inaspettato semplicemente perché si sono intercettate le corde giuste, si è captata la visceralità di una società vitale, presentandosi – anche in buona fede – come il suo interprete autentico e unico, e diventando così il “noialtri” della situazione. Non sempre questa è una forma di autoritarismo (come pensava Mounier, in un’epoca in cui – forse – la democrazia era più fragile), ma certamente è una forma di populismo, che usa la retorica dell’antipolitica per cavalcare la democrazia. Il male peggiore, anche nella vita sociale, non è sempre quello dichiarato; spesso è un parassita del bene, e può nascondersi ovunque: nella politica e nell’antipolitica.

Lasciamo a un Altro, com’è ovvio, il giudizio sulle persone, le quali peraltro sono spesso diverse da come appaiono o vogliono apparire, e possono sempre cambiare (non solo in peggio): ma è inevitabile prendere posizione su idee e ideali, azioni singole e comportamenti consolidati di chi occupa responsabilità pubbliche. E come è un po’ difficile affermare che alla Casa Bianca sia stato eletto un vero cristiano (che ha alle spalle due divorzi e tre mogli), solo perché è contro i gay, allo stesso modo è difficile attribuire una passione smisurata per il bene comune a chi controlla società che hanno dichiarato fallimento 4 volte.

È altrettanto importante prendere posizione sulle conseguenze e sul possibile contagio populista dell’“effetto-Trump”: l’Europa, che si vanta di essere culla della democrazia, di quale politica internazionale sarà capace, avendo come interlocutori figure come Trump, Putin e Erdogan? Potrà mantenere un silenzio ipocrita sul futuro della democrazia in Turchia, in cambio di un megacampo profughi finanziato da noi, che non turbi i nostri sonni? Potrà accettare tranquillamente – per non dire altro – che Trump svenda un pezzo di Mediterraneo a Putin, rassegnandosi a una presenza stabile in Siria di basi militari russe? Come affrontare un possibile contagio populista in Francia, dove le elezioni sono imminenti, saldandosi con forme striscianti di nazionalismo e  xenofobia che circolano in modo semiclandestino quasi ovunque, finché non troveranno un tribuno senza scrupoli pronto a sdoganarle e trasformarle in una bandiera? E se in Italia l’esito del referendum portasse a una scissione nel Pd e a nuovi esperimenti di governo, che in realtà sin da ora appaiono molto vecchi?

In una favola di Esopo si racconta di un atleta sbruffone che si vantava di aver fatto un grandissimo salto da un piede all’altro del celebre colosso di Rodi e che era in grado, per provarlo, di esibire dei testimoni; al che uno degli astanti pronunciò la celebre frase: “Hic Rhodus, hic salta”. Cioè: l’ostacolo è qui, non servono testimoni, facci vedere ora se sei capace di saltare. In questo momento, in cui le “società vitali” alimentano (o accettano) il dilagare dei populismi, all’Europa non basta più invocare la testimonianza della propria storia. È giunto il momento di gettare il cuore oltre l’ostacolo. Domani potrebbe essere troppo tardi.

*Luigi Alici è docente di Filosofia morale all’Università di Macerata. Questo articolo è pubblicato sul suo blogDialogando

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