Ricordando l’adagio “ognuno parli solo di ciò che vive”, mi trovo in questa meditazione ancora più in difficoltà rispetto alla precedente. Perdonatemi se allora mi limiterò a consegnarvi solo alcuni spunti, che anch’io ricevo da altri, ma che sono più nella “testa” che dentro il cuore.
In “memoria”… Alcuni spunti sull’importanza della “memoria”
La memoria è una delle facoltà a cui facciamo meno caso e a cui diamo meno importanza e invece pare essere un aspetto determinante della nostra vita. Molte delle nostre scelte, emozioni, reazioni dipendono infatti dalla memoria. In essa si sedimentano e si conservano le immagini di ciò che abbiamo visto, le conoscenze che abbiamo acquisito, i ricordi più carichi di affetto, le sensazioni più forti, i ricordi delle persone che più hanno segnato la nostra vita, le parole più forti che ci sono state rivolte, i fatti e gli eventi che hanno costituito la nostra biografia… insomma, la memoria è il luogo della mia identità, è ciò che costituisce il “mio” modo naturale, spontaneo, istintivo di relazionarmi con tutto e con tutti. Se la memoria è così importante, merita allora alcune attenzioni.
Abbi cura della tua memoria, perché “l’uomo è ciò che mangia”
La prima attenzione è l’importanza di aver cura di tutto ciò che entra nella nostra memoria. I Padri del deserto insegnavano ai giovani monaci ad essere buoni portinai del proprio cuore. Evagrio raccomanda, ogni volta che si affaccia un pensiero nel cuore, che prima di aprire la porta, gli si chieda: “Sei dei nostri o no? Da dove vieni? Dove mi vuoi portare?”. Tutti conosciamo la curiosa definizione data da Feuerbach all’uomo: l’uomo è ciò che mangia. C’è un aspetto di verità in questa frase: ciò che entra in noi e si sedimenta nel cuore (la “memoria”) ci costituisce. Stai attento quindi a ciò che fai entrare. “Se mangi cibi avariati, ti verrà il mal di pancia”. Se nutri costantemente la tua memoria di immagini, di parole, di gesti che sanno della vita vecchia, quella che gira attorno all’individuo, che dice sempre “io” e “io, per primo” e “io, tutto” e “io, subito” e “io, da solo”… non stupirti se poi inizierai a vivere una vita avvelenata. Ci siamo nutriti, noi cristiani, per decenni di televisione, internet, mezzi di comunicazione sociale che trasmettono e osannano la vita degli individui… e cosa ne è venuto? Che in Italia facciamo fatica a trovare ancora uomini e donne, laici, preti e vescovi come quelli che segnarono la stagione conciliare. Troviamo invece ben altro: scandali sessuali, economici, abusi di potere, ricerca di audience, bisogno di apparire, invidie e gelosie ecclesiali, carrierismo… Sì, l’uomo è ciò che mangia. Impariamo allora a “mangiare bene”, a scegliere “ciò che mangiamo”, ad “alzarci da tavola” al momento giusto. Cerchiamo nella vita ciò che ha il sapore, il gusto, la bellezza delle cose “autenticamente spirituali”… non “spiritate” o “bigotte”, mi raccomando! Nei primi secoli la chiesa ha costruito splendidi luoghi per la vita e la liturgia dei suoi figli, pieni di immagini che trasmettessero il gusto della vita rinata dal Battesimo: altro che le statue o le immagini bigotte delle nostre Chiese di oggi o il freddo grigiore delle Chiese degli ultimi anni. Cercate le cose autenticamente spirituali, le cose che portano il timbro di quella “vita nuova, risorta, comunionale, feconda” che dà Colui che dice “Ecco, io faccio nuove tutte le cose” e nutrite di quelle le orecchie, gli occhi, il cuore. Un prete della nostra Diocesi mi disse una volta che in casa non aveva più la televisione. Mi sembrò allora un gesto stravagante e fuori dal tempo. Poi a distanza di anni sono arrivato anch’io alla sua stessa conclusione: beh, vi dico che non solo si vive anche senza, ma si vive meglio. Meno turbati dalle passioni di ogni tipo, meno agitati, meno toccati dalle “mode del momento”. Certo, non basta né è necessario per forza fare questa scelta: la cosa che conta è imparare a discernere. E il discernimento non nasce dai ragionamenti che fa la testa, ma dalle cose che ha gustato il cuore. Gustate cose “buone”… e il resto verrà da sé, ciascuno a modo suo.
Lascia che il Signore risani la tua memoria
Ma la memoria non solo va nutrita, a volte va anche risanata. Nella nostra memoria si sedimentano paure, ferite, parole sbagliate che ci sono state rivolte e a cui abbiamo purtroppo creduto. Don Fabio Rosini, un prete romano, nelle sue catechesi ai giovani parlava, a questo proposito, di un “grappolo di pensieri neri” che c’è nel cuore di ciascuno di noi, frutto dei fallimenti vissuti, delle difficoltà provate, delle parole cattive ricevute, dei tradimenti e degli abbandoni, delle ferite che i fatti della vita hanno lasciato su di noi. Pensieri neri, tenebrosi che si concatenano l’uno con l’altro e che in verità altro non sono che menzogne su di noi e sugli altri a cui abbiamo dato credito. Che si fa con questa memoria ferita? L’unico che guarisce la memoria è il Signore! Questa è una specialità soltanto sua. Consegnala a Lui, raccontala a Lui, aprila a Lui. Lui la guarisce in un modo tutto suo: non estirpandola (è una parte di te! sarebbe come tirarti via un pezzo di vita…), ma trasfigurandola (ciò che era al servizio del ‘male’, passa ora al servizio del bene tuo e dei fratelli… ciò che puzzava di morte, prende il profumo della vita… ciò che era tenebra, diviene ora avvolto dalla luce). Non è questa la Pasqua? Lazzaro, vieni fuori! Perché avvenga in te questa risurrezione è necessario solo un atto di fiducia: Togliete la pietra dal sepolcro.
Il paradosso della memoria cristiana: un passato che è futuro
La “memoria cristiana” ha un tratto tutto suo, paradossale: è memoria dell’eterno, una “memoria escatologica”. Cosa vuole dire questa parola così strana? Che l’amico di Gesù, quando fa memoria di Lui, non fa memoria di un evento del passato, né di un evento di un futuro sganciato con il presente, ma di un evento eterno, di un evento che, pur avvenuto nel passato, non smette di essere “presente”, orientato al suo compimento definitivo. Per questo la “tradizione” della Chiesa non è mai un insieme di affermazioni, di regole o di pratiche chiuse; una sorta di “scatola nera” con manuali pieni di idee, regole, valori, pratiche che una generazione passa all’altra perché non vadano perdute. No: la tradizione della Chiesa è sempre viva, è sempre giovane, perché la tradizione è il Signore vivo, lo Spirito vivificante, il Padre origine della vita. Non è quindi nemmeno l’estrosità di chi ricerca e insegue ogni novità, per il gusto di fare sempre diverso… La tradizione è un organismo che cresce nel tempo e il cui compimento è già nella Gerusalemme del cielo. La tradizione è un fiume che non ci raggiunge dal passato, da ciò che abbiamo dietro alle spalle, ma ci arriva dal Regno, da ciò che sta davanti a noi. L’origine del fiume è il Padre e l’origine è sempre sovrabbondante, come una sorgente che non smette mai di far sgorgare acqua. Più torniamo all’origine, più facciamo memoria dell’origine, più ci avviciniamo alle Fonti (il cuore del Padre) e più siamo giovani, nuovi, vivi e vivaci. Fare memoria non è allora né la stravaganza di chi non ha radici, né la rigidità del “si è sempre fatto così”. Questa è la “memoria” che avviene anche nell’Eucarestia. Non si tratta di ricordare un evento passato: l’Ultima Cena di Gesù. Ma di entrare nella Gerusalemme del Cielo, di sederci alla tavola del Regno, di sostare in compagnia dei Santi, di udire la voce del Padre, di contemplare l’Agnello immolato e risorto in cui è già ricapitolata tutta la storia, di respirare lo Spirito datore di vita. Siamo “àncorati” non al passato, ma all’eterno.Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; 2pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. 3Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio! (Col 3,1-3)
Ricordati… la memoria degli incontri con Dio
Ultimo pensiero riguardo alla memoria mi viene da una pagina di Vangelo che la Liturgia feriale ci ha consegnato qualche settimana fa’. Siamo nel Vangelo di Marco. Gesù ha appena moltiplicato i pani. Lo ha fatto già due volte. E ora sta attraversando il lago, sulla barca, con i discepoli. E mentre Gesù parla, i discepoli, sulla barca, si distraggono, perché si accorgono di “non aver con loro che un solo pane”. Gesù si accorge della loro agitazione e allora li rimprovera (con una certa bontà, a dire il vero), cercando di risvegliare proprio la loro memoria:«Perché discutete che non avete pane? Non intendete e non capite ancora? Avete il cuore indurito? 18Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite? E non vi ricordate, 19 quando ho spezzato i cinque pani per i cinquemila, quante ceste colme di pezzi avete portato via?». Gli dissero: «Dodici». 20«E quando ho spezzato i sette pani per i quattromila, quante sporte piene di pezzi avete portato via?». Gli dissero: «Sette». 21E disse loro: «Non capite ancora?» (Mc 8,17-21)3Non vi ricordate? Ecco il guaio dei discepoli: hanno la memoria corta, non hanno memoria. Una santa donna una volta mi disse, durante un corso di esercizi, che la memoria è come la custodia degli occhiali: li racchiude e li protegge, per conservarli nel tempo. Le grazie di Dio, gli interventi di Dio nella nostra vita – continuava – richiedono allora di essere anche loro avvolti, custoditi, conservati in quella custodia che è la nostra “memoria”. Non chiede proprio così il Signore al suo popolo che sta per entrare nella Terra Promessa?2Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto… […] 12Quando avrai mangiato e ti sarai saziato, quando avrai costruito belle case e vi avrai abitato, 13quando avrai visto il tuo bestiame grosso e minuto moltiplicarsi, accrescersi il tuo argento e il tuo oro e abbondare ogni tua cosa, 14il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dimenticare il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione servile; 15che ti ha condotto per questo deserto grande e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata, senz’acqua; che ha fatto sgorgare per te l’acqua dalla roccia durissima; 16che nel deserto ti ha nutrito di manna sconosciuta ai tuoi padri, per umiliarti e per provarti, per farti felice nel tuo avvenire.Spesso nella Scrittura, nei luoghi in cui Dio si manifesta, l’uomo erige una “memoria”, per non dimenticarsi del dono che ha ricevuto, della Parola che gli è stata data, dell’incontro di alleanza che lì è stato siglato… Custodisci allora anche tu la memoria degli incontri che hai avuto con Dio, “erigi le tue memorie”: ti saranno utili, soprattutto quando verrà il momento della prova e si farà sentire il grappolo dei pensieri neri. Il primo incontro tra Giovanni, l’Apostolo, e Gesù fu così custodito dal cuore del discepolo, che a distanza di anni egli ricordava ancora non solo il luogo, ma anche il tempo di quell’evento di grazia: Erano circa le quattro del pomeriggio.
“Fate questo”… il “fare” dell’Eucarestia
La “memoria” che oggi ci è chiesto di meditare è la memoria dell’Eucarestia. Una memoria che ha a che fare con qualcosa “da fare”. Cos’è questo “fare” che accende e nutre la nostra memoria nell’Eucarestia?Mi sembra che il “fate questo” qui in gioco, possa essere compreso meglio, quando comprendiamo il cuore di ogni Eucarestia. E il cuore della Messa, a cui tante volte partecipiamo, mi sembra stare in quel momento che chiamiamo “offertorio”. Il cuore di questo momento, a sua volta, non sta certo, come tutti sappiamo, nel cestino che passa per i banchi della chiesa a raccogliere “le offerte”. Se fosse così, saremmo obbligati tutti a metterci dentro qualcosa e a chi non ci mettesse niente, gli sarebbe impedito di continuare la liturgia. Provo a dirlo in altre parole: qual è l’offerta che a quel punto della Messa avviene? E perché è così importante? L’offertorio ci dice una cosa: che il “fate questo” non può avvenire senza che tutti in chiesa in quel momento procediamo all’offerta, facciamo la nostra offerta. “Fate questo” è “fate l’offerta”. Quale offerta? L’offerta rappresentata da quel pane e quel vino, che non a caso, non dovrebbero mai trovarsi sulla mensa dell’altare dal principio della messa, ma dovrebbero essere portati all’altare al modo di un’offerta… e non dovrebbero trovarsi nelle mani del presbitero che presiede l’eucarestia senza che egli li abbia ricevuti da chi ha il compito di offrirli: l’assemblea del popolo di Dio, che esercita qui il suo sacerdozio battesimale. Perché? Perché l’offerta del pane e del vino è l’offerta niente meno che della nostra umanità. Non dell’umanità come concetto astratto, generico… ma della mia, della tua, ossia l’umanità personale di ciascuno di noi. Questa viene portata all’altare, insieme a tutto il creato, nei simboli del pane e del vino e l’unico modo per cui possa essere portata all’altare è che sia offerta, donata liberamente e per amore, da ciascuno di noi. Solo questa offerta rende possibile il proseguio dell’Eucarestia. Quando il presbitero infatti alzerà il pane e il calice del vino, dopo la consacrazione, e dirà in nome di Cristo Questo è il mio corpo e Questo è il mio sangue… è anche di noi, infatti, che si sta parlando. Quel pane e quel vino è anche la nostra umanità, con tutte le sua fragilità. Cristo l’ha presa tra le mani, l’ha unita alla sua divinità, per la forza d’amore dello Spirito Santo, ed ora è “il suo corpo”, il “suo sangue”. E proprio per questa unione con lui, la nostra umanità consegnata nelle sue mani, travalica i cieli, supera la barriera del tempo e della morte, arriva già presso il Padre: Per Cristo, con Cristo, in Cristo, a Te Dio Padre Onnipotente… E che la nostra umanità è già portata nel Regno, lo testimonia quello che segue: ci scambiamo il dono della pace, perché nel Regno siamo già tutti fratelli e sorelle pienamente riconciliati tra di noi, senza che nessuna offesa, rancore, sospetto rovini la nostra fraternità… e ci troviamo al banchetto della tavola del Regno, dove siamo nutriti niente meno che di Dio stesso, comunicando alla sua vita divina, che è vita non di tanti individui isolati, in lotta per la loro sopravvivenza o per stabilire chi vale di più degli altri… ma di persone intessute l’una nell’altra, l’una per l’altra, ad immagine di Colui che è la Comunione. Sant’Agostino insegnava che quando ci avviciniamo all’altare per ricevere l’Eucarestia, il presbitero ci rivolge una frase che dovremmo in realtà intendere come una domanda. “Corpo di Cristo”, non significa tanto “Guarda che questo è il corpo di Cristo e non un pane comune”, ma “Vuoi tu, unendoti al Cristo, diventare parte del suo corpo? Vuoi tu, comunicandoti all’Eucarestia, diventare il corpo di Cristo?”. E ognuno di noi rispondendo “Amen”, è come se dicesse “Sì, lo voglio. Voglio essere un pezzo di questo corpo di Cristo risorto, che è la sua Chiesa”. Per questo la Chiesa antica non conservava l’Eucarestia per l’adorazione, ma per la comunione dei malati e degli assenti. Non è strana questa cosa? Non c’è cosa più preziosa per la Chiesa che l’Eucarestia. Non c’è luogo in cui la presenza del Signore sia più forte che nel pane dell’Eucarestia. Eppure, quel pane, non viene consacrato per essere conservato, esposto, adorato e incensato in una teca dorata da tutti i presenti alla Messa… ma per essere distribuito, mangiato e consumato… finendo così per “sparire dai nostri occhi” (come a Emmaus: sparì dalla loro vista!). Quel pane sparisce, perché il corpo di Cristo siamo ora noi, noi che ci siamo nutriti a lui, che siamo stati uniti a lui. Noi che siamo in lui. Così termina l’Eucarestia: siamo inviati nel mondo, ma non più come eravamo prima di entrare. Siamo ora corpo di Cristo – la sua Chiesa – offerto al Padre, per la vita del mondo, nella grazia dello Spirito Santo.Cos’è allora questo fate presente nel comando di Gesù? Cosa ci chiede di fare, Gesù, in memoria di lui? Ci chiede di offrire a lui la nostra umanità, di acconsentire liberamente e per amore all’unione della mia umanità alla sua divinità. Ci chiede di consegnargli noi stessi, così come siamo, come quel bambino che sul monte offrì a Gesù tutto ciò che aveva – cinque pani e due pesci – o quella donna che nel tesoro del tempio gettò “tutta quanta la sua vita”. Ci chiede di partire da Lui, di fidarci di Lui: è Lui che unisce a sé la nostra umanità e solo così la nostra vita ha accesso al Padre e diventa un’offerta a lui gradita. Non è necessaria, né possibile una seconda offerta dopo la sua: serve solo che ognuno di noi continui ogni giorno ad unirsi a quella offerta che Egli ha fatto una volta per tutte. A noi non è chiesto infatti di vivere come Lui (cosa impossibile), ma di vivere in Lui. E la sorgente di questa vita è proprio la consegna di noi stessi che avviene ogni volta che partecipiamo all’Eucarestia. Ci chiede ancora di lasciar scorrere in noi la sua vita divina. Lui ha unito a sé la nostra umanità. A noi ora è chiesto solamente di “rimanere in Lui”, aperti a lui, come il ramo che, se non si chiude alla linfa che il tronco fa arrivare, farà molto frutto. “Rimanere in Lui” è rimanere in questo nuovo modo di vivere filiale, fraterno, che è la vita del Figlio. In questo nuovo modo di vivere abbandonato, consegnato. In questo nuovo modo di vivere in cui la nostra fecondità non viene più dai risultati che otteniamo (anche religiosi, parrocchiali, ecclesiali…), ma dall’accettare di restare nell’offerta di noi stessi, nel dono di noi stessi, ovunque tale dono ci venga chiesto: in famiglia, con gli amici, sul lavoro, nello studio, in parrocchia… “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane un chicco solo, se invece muore, produce molto frutto”.E il risultato di tale offerta non è di poco conto. Lo dico con una bella frase che ho sentito una volta da un caro amico vescovo: «Quando mi dicono: “perché vai a Messa tutti i giorni, fin da quando sei piccolo?” io non ho altra risposta da dare che questa: “perché non voglio morire”». Il risultato dell’offerta è partecipare alla vita eterna, che non è la vita che verrà dopo questa, ma è la vita quella5che è senza tramonto (già ora, già qui); quella che non tramonta mai perché non è guasta dentro; quella che non finisce mai perché è avvolta dall’amore dello Spirito Santo e porta su di sé il profumo del Figlio e il Padre tutto ciò che è avvolto dall’Amore e che ha in sé il profumo del Figlio, anche se muore, lo risuscita.