* di Simone Majocchi
Ricordiamo tutti come alcuni, nei primi giorni della diffusione del covid-19, spiegassero (talvolta anche con metafore grezze e sgradevoli) che le persone anziane e con patologie pregresse erano le più esposte di fronte ad un contagio così aggressivo: ricordo ad esempio l’enorme fastidio e la pesante tristezza che provai nel sentire una ricercatrice affermare che “il virus dà una spinta a chi è già compromesso”. Le persone anziane sono state effettivamente le più colpite, in virtù sia della fragilità della salute, sia di altri fattori, che non possiamo ignorare. Ora resta il grande dolore per la morte di tanti anziani, che non dobbiamo dimenticare, e mi chiedo se questa emergenza sanitaria non ci abbia messi di fronte ad una triste dinamica che già era implicitamente in atto nel nostro modello di società. Ce lo mostra l’appello della Comunità di Sant’Egidio, “Senza anziani non c’è futuro, appello per ri-umanizzare le nostre società. No a una sanità selettiva”, nel quale ho ritrovato molte consonanze con alcune riflessioni che negli scorsi mesi ero andato maturando. Gli anziani infatti sono una parte preziosa delle nostre vite e del tessuto sociale di una comunità, e senza di loro siamo tutti più poveri. Il testo dell’appello (facilmente reperibile sul web, e che invito a sottoscrivere) ci ricorda, anche sotto il profilo laico, che invece di lottare per “il diritto a morire”, si sarebbero dovute compiere ben altre battaglie civili per garantire la dignità di chi soffre: «In numerosi paesi di fronte all’esigenza della cura, sta emergendo un modello pericoloso che privilegia una “sanità selettiva”, che considera residuale la vita degli anziani. La loro maggiore vulnerabilità, l’avanzare degli anni, le possibili altre patologie di cui sono portatori, giustificherebbero una forma di “scelta” in favore dei più giovani e dei più sani. Rassegnarsi a tale esito è umanamente e giuridicamente inaccettabile. Lo è anche in una visione religiosa della vita, ma pure nella logica dei diritti dell’uomo e nella deontologia medica […]. La tesi che una più breve speranza di vita comporti una diminuzione “legale” del suo valore è, da un punto di vista giuridico, una barbarie». Il grado di civiltà di un popolo traspare anche dal rispetto che si porta agli anziani, ed è giunto il momento in cui ciascuno di noi si deve chiedere quale modello di cura e di assistenza stanno perseguendo la politica, le istituzioni sanitarie e la società nel suo complesso. Viene in mente un passaggio del De senectute di Cicerone: “Il peso dell’età è più lieve per chi si sente amato e rispettato dai giovani”. Siamo riusciti a far sentire i nostri anziani amati e al sicuro? Se poi dovessimo giudicare da quello che vediamo in queste ultime settimane, sembra che la preoccupazione principale delle istituzioni e del mondo economico sia ora solo il poter riconquistare i ritmi forsennati che hanno favorito il dilagare dell’epidemia, lasciando indietro ancora una volta chi è più fragile. Vuol dire quindi che stiamo andando verso un modello di società sempre meno a misura di anziano? Chiediamoci cosa significhi ciò, anche a fronte dell’invecchiamento della nostra società. Si tratta di fare i conti con le risorse che possiamo e vogliamo investire affinché il nostro sistema sanitario sia in grado di garantire la giusta e doverosa assistenza e cura ad una porzione sempre crescente di popolazione. L’appello ci offre un altro prezioso passaggio: «Crediamo che sia necessario ribadire con forza i principi della parità di trattamento e del diritto universale alle cure, conquistati nel corso dei secoli. È ora di dedicare tutte le necessarie risorse alla salvaguardia del più gran numero di vite e umanizzare l’accesso alle cure per tutti. Il valore della vita rimanga uguale per tutti. Chi deprezza quella fragile e debole dei più anziani, si prepara a svalutarle tutte. Con questo appello esprimiamo il dolore e la preoccupazione per le troppe morti di anziani di questi mesi e auspichiamo una rivolta morale perché si cambi direzione nella cura degli anziani, perché soprattutto i più vulnerabili non siano mai considerati un peso o, peggio, inutili». Le 6.773 vittime in Italia nelle RSA nel periodo tra il 1° febbraio e il 14 aprile (di cui si stima, per difetto, il 40% causate direttamente dal Covid) sono una pugnalata al cuore; i dati sono dell’Istituto Superiore di Sanità. In Lombardia, su 700 RSA, si sono considerate solo 266 strutture, per un totale di 1.625 morti. Non a tutti era stato fatto il tampone. Il 24 febbraio scrissi (in un testo ripreso anche dal quotidiano Libertà di Piacenza) che sarebbe stato necessario che l’ATS facesse subito i tamponi a tutti gli ospiti e gli operatori nelle RSA della prima zona rossa. Invece, dopo una prima e tardiva campagna di test, il 15 aprile l’ATS di Milano aveva addirittura comunicato che non avrebbe più fornito i tamponi alle RSA, che dall’8 marzo erano state scelte da Regione Lombardia per accogliere paradossalmente pazienti covid-positivi, senza preservare tali strutture come “bacini di protezione” per gli anziani. Non arrendiamoci all’idea che le RSA (e in un certo senso anche gli ospedali) siano una sorta di “non-luoghi”, spazi di città invisibili, aree che, assistendo gli anziani, evitano al tempo stesso alla società dei “giovani e sani” il “rischio” (che in realtà è un’opportunità preziosa) di entrare a contatto con l’anzianità e la malattia. A noi spetta ora di non dimenticarci di tutte queste vite disperse, di tutte queste storie interrotte troppo presto. Infatti resta un triste pregiudizio da combattere, e cioè l’idea che gli anziani deceduti per il Covid fossero comunque già al “capolinea”, come se questo potesse alleviare il dolore, o alleggerire le responsabilità. Questa pandemia ha letteralmente falcidiato una generazione… Pensiamo a questo: chi di noi non conserva un insegnamento prezioso tramandatogli da un nonno, da un prozio? Quanto povera sarebbe la nostra vita senza il dono costituito dall’affetto e dall’amore delle persone più anziane con cui abbiamo avuto il privilegio di condividere un tratto dell’esistenza?